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Morte
e pianto rituale
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[
]La
crisi del cordoglio si presenta, nel quadro delle precedenti considerazioni,
come il rischio di non poter trascendere il momento critico della
situazione luttuosa. La perdita della persona cara è, nel
modo più sporgente, l'esperienza di ciò che passa
senza e contro di noi: ed in corrispondenza a questo patire noi
siamo chiamati nel modo più perentorio all'aspra fatica di
farci coraggiosamente procuratori di morte, in noi e con noi, dei
nostri morti, sollevandoci dallo strazio per cui "tutti piangono
ad un modo" a quel saper piangere che, mediante l'oggettivizzazione,
asciuga il pianto e ridischiude alla vita e al valore. Tuttavia
quest'aspra fatica può fallire: il cordoglio si manifesta
allora come crisi irrisolvente, nella quale si patisce il rischio
del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali
della presenza.
La crisi del cordoglio, come si è detto, appartiene alla
condizione umana: tuttavia la civiltà moderna l'ha di molto
ridotta di intensità e pericolosità, fornendole il
soccorso di tutta l'energia morale maturata nel vario operare civile
e, - per i credenti - contenendola e lenendola mercé la prospettiva
delle consolanti persuasioni della religione cristiana. Nel mondo
antico (per tacere naturalmente delle civiltà primitive)
la crisi del cordoglio assume invece ordinariamente, sia nell'individuo
che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro
nella nostra civiltà solo in casi individuali eccezionali
e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle
poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora
condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo
antico. Così ove prescindiamo dalla risoluzione poetica di
Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta
in modi "eccessivi" che noi oggi non saremmo disposti
a concedere a un uomo "normale", e che possiamo al più
tollerare con varia disposizione d'animo nelle contadine dell'Italia
meridionale o della penisola balcanica. [
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] così
il "far morire i morti in noi", che è un faticoso processo
interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più
impropria, cioè nell'aggressività contro il cadavere, o
nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri,
o con l'insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; [
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[
] noi consideriamo
il lamento funebre innanzi tutto come una determinata tecnica del piangere,
cioè come un modello di comportamento che la cultura fonda e la
tradizione conserva al fine di ridischiudere i valori che la crisi del
cordoglio rischia di compromettere. In quanto particolare tecnica del
piangere che riplasma culturalmente lo strazio naturale e astorico (lo
strazio per cui tutti "piangono ad un modo"), il lamento funebre
è azione rituale circoscritta da un orizzonte mitico.
Fra le donne delle
campagne lucane i rischi psichici della crisi raggiungono tale ampiezza
e gravità da conferire ad ogni evento luttuoso una sinistra potenza
di disgregazione e di follia. Il carattere spettacolare che il cordoglio
assumeva nel mondo omerico - si ricordi Achille che si rotola nella polvere
alla notizia della morte di Patroclo - o nell'antico Israele - si pensi
a David che alla notizia della morte di Saul "abbrancate le vesti
se le stracciò" - si mantiene ancor oggi nelle campagne della
Lucania, solo che qui non si tratta di eroi o di re protagonisti di una
grande storia, ma di povere donne contadine che la civiltà cristiana
e il mondo moderno hanno ancora lasciato tra coloro che, di fronte alla
morte si comportano - per ripetere le parole di Paolo - come "gli
altri che non hanno speranza".
ERNESTO DE MARTINO,
"MORTE E PIANTO RITUALE - Dal lamento funebre antico al pianto
di Maria"
BOLLATI BORINGHIERI, 2000
- TORINO
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Tarantismo
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